Wilhelm Brasse – Il fotografo di Auschwitz e sulla fotografia della Shoah
settembre 05, 2019
« Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello:
tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia.
Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito.
Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco…
Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra.
L’ombra della forca lo copriva… I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole.
I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’e? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava…
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra.
Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi.
E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti.
La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere »1.
Elie Wiesel (superstite dei campi di concentramento di Auschwitz, Buchenwald, Buna)