Naviga per Categoria

Mi ricordo sì, mi ricordo di Luciano Bianciardi

Inserito da serrilux

Mi ricordo sì, mi ricordo di Luciano Bianciardi

Un bracconiere di sogni1

“Solo gli emarginati lo piangeranno, perché solo degli emarginati è il lutto”.
Oscar Wilde

 

Mi ricordo sì, mi ricordo di Luciano Bianciardi… era un bracconiere di sogni, un passatore di confine, un filosofo dell’anarchia… almeno è questo che ricordo bene, non solo per certi suoi scritti ma anche per i pochi incontri, credo abbastanza singolari, nei quali ci siamo conosciu- ti… tra il 1968 e il 1969. Volevo fare un documentario sui partigiani della Maremma, con fotografie e filmati dei luoghi dove quella “meglio gioventù” si mise uno “straccetto rosso al collo” (Pier Paolo Pasolini, diceva), andò alla macchia per conquistare nuove primavere di bellezza e gettare le fondamenta della democrazia… se poi le cose andarono non proprio come i padri della repubblica e il popolo italiano avevano scelto con le votazioni, e cioè la cacciata (si fa per dire) di re, regine, corti e fascismi… questa è un’altra storia.

Su un quadernetto con la copertina nera scrissi il titolo del documentario che avevo in testa, I ragazzi che fecero la storia (dentro c’erano solo pochi appunti sparsi qua e là) e andai a San- t’Anna di Rapallo a cercare Luciano Bianciardi, dove mi dissero gestiva una libreria… non lo trovai… seduto a un caffè sul mare, avevo in tasca i Cantos di Ezra Pound e presi a leggere… mi sembrava di vedere passeggiare il poeta in queste stradette assolate — appena liberato dal manicomio criminale dove l’avevano messo per certe folgorazioni sul fascismo e su Mussolini (che non ho mai approvato) —… era comunque un poeta che ho sempre amato… quanto Dino Campana de I canti orfici e Giacomo Leopardi di Pensieri… ricordo anche di aver letto un racconto stupendo di Ernest Hemingway, Gatto sotto la pioggia, che forse riporta all’incon- tro con Pound nel borgo negli anni ’20… non so… descriveva un albergo (il Riviera), una giornata piovosa e un gatto che si ripara sotto il tavolo di un bar in una piazzetta… dalla fine- stra dell’albergo una ragazza vede il gatto infreddolito e scende per prenderlo, ma quando è nella piazzetta il gatto non c’è più. Il genio non richiede nessuna spiegazione.

Passò un po’ di tempo e un pittore di Piombino che conosceva mio padre (Furio Cavallini), mi aiutò per incontrare Bianciardi a Milano e fece da ponte… ci siamo visti in via Zuretti, al- l’incrocio con via Gluck… era nel fine estate del ’68, credo… mi portò in un bar basso di luci… gli dissi che avevo letto alcuni suoi scritti sui movimenti del ’68 e non ero proprio d’accordo, e nemmeno ciò che aveva scritto sulla spedizione garibaldina mi era interessato quanto il suo piccolo libro, Il lavoro culturale… e poi L’integrazione e La vita agra (il film di Lizzani era piuttosto brutto e affermai con una qualche disinvoltura — “Bravo Ugo Tognazzi, ma Giovanna Ralli era troppo romana… bello il cameo di Enzo Jannacci che canta L’ombrello di mio fratello… Giampiero Albertini interpreta con aderenza il personaggio di Libero… c’era sì la Milano di quegli anni, meno la filosofia libertaria del libro, non ti sembra?” —. “Troppa gente ci ha messo le mani”, rispose Bianciardi un po’ scontrito.

Mi ascoltava, sorrideva e versava il vino rosso nei bicchieri… mangiammo del prosciutto, sot- taceti, acciughe sotto pesto, mi pare e, almeno io, una salsiccia cruda… gli dissi che non ave- vo nessuna produzione per realizzare il documentario, la cinepresa Super8mm. e i soldi delle pellicole li avevo messi insieme facendo il contrabbando di sigarette, whiskey e cognac… sor- rise di nuovo… gli chiesi se voleva fare la voce narrante del documentario, l’altra doveva esse- re quella di Carlo Cassola… mi occorrevano solo le loro voci… però mi sarebbe piaciuto inse- rire anche dei loro interventi o riflessioni sulla lotta partigiana. Il testo del documentario era rubato da Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945)… ne avevo scelte una decina… tutte di ragazzi sotto i vent’anni, torturati e am- mazzati dai fascisti… si fece serio… accese una sigaretta, poi un’altra… io un sigaro toscano, “Si può fare”, disse… “parla con Carlo e vediamo”. Ci lasciammo con un abbraccio stretto.

Avevo parlato col mio “cattivo” maestro ed ero felice che avesse ascoltato un ragazzo che vo- leva fare uno strano documentario sulla Resistenza… lo vedo ancora allontanarsi nel suo im- permeabile bianco-sporco, un po’ ingobbito, trascinare i passi sul marciapiede di via Zuret- ti… avevo in tasca un libro di Oscar Wilde, e a bordo pagina, annotai (più o meno): “Chiun- que può entrare nella storia danzando, solo pochi riescono a mutarla in disobbedienza civi- le… la storia è sempre storia del più forte, è l’unica tirannia che inganna il tempo e quando finisce nelle accademie o nei musei, lì muore… è sempre l’uomo in rivolta che crea o disfa un’epoca delle proprie brutture, ipocrisie o tradimenti (dei governi, dei partiti, dei saperi)… l’unico impegno che abbiamo nei confronti della storia (delle disuguaglianze, delle oppres- sioni, dei genocidi) è quella di riscriverla col sangue degli insorti”. Solo un un eretico dell’e- resia o un folle che non aspira alla santità o un disingannato della vita, possono comprendere cosa significhi la libertà. Il futuro appartiene agli uomini senza bavagli! Saranno gli uomini in utopia a governare quanto basta o tutto cadrà nella stupidità dell’ottimismo e della soggezio- ne generalizzata, scrissi in treno (forse proprio così) nel mio quadernetto nero.

L’idea del documentario mi era venuta leggendo I minatori della Maremma di Bianciardi e Cassola (alcuni erano stati partigiani)… le interviste dei minatori era state registrate dal regi- sta di Massa Marittima, Umberto Lenzi, che ho fotografato poco prima di morire e mi ha rac- contato con trasporto la forza e la complicità di Cassola e Bianciardi con i minatori… volevo filmare i luoghi, i casolari, i boschi (usare anche fotografie storiche) dove i ragazzi della resi- stenza avevano combattuto e fare la colonna sonora con le testimonianze delle loro uccisioni attraverso le lettere, non m’importava nemmeno se i partigiani erano maremmani. La canzo- ne dei titoli di testa doveva essere “Bella ciao” e il documentario si chiudeva con il canto del- l’Internazionale, ma non quello sovietico (che ho sempre trovato troppo volgare), quello francese (mi sembrava contenesse ancora lo spirito libertario e sovversivo della Comune di Parigi), l’inno alla libertà scritto da Eugène Pottier nel 1871, che diceva: “In piedi, dannati della terra, / In piedi, forzati della fame! / La ragione tuona nel suo cratere, /È l’eruzione finale. /Del passato facciamo tabula rasa, /Folle, schiavi, in piedi! In piedi! /Il mondo sta cambiando radicalmente, /Non siamo niente, saremo tutto!…”, generalmente cantato sulla musica della Marsigliese. Al tempo della società dello spettacolo si perdona tutto a tutti, tran- ne all’uomo che pensa se stesso in termini di rivolta sociale.

All’incontro con Cassola sulla letteratura o su un suo libro (non ricordo, forse La ragazza di Bube o Ferrovia locale), forse a Campiglia Marittima o a Livorno o a Grosseto, chissà?… par- lai del mio documentario con Cassola… di Bianciardi, anche… Cassola fu un po’ scontroso… ma disse che era una buona cosa… comprese subito che non si trattava di un’agiografia sui partigiani ma di una visione libertaria della Resistenza… un po’ anomala, forse “un po’ trop- po personale”, aggiunse… ci rivedemmo diverse volte… passammo insieme anche un ultimo dell’anno in un paesino della Maremma, Tirli, forse… anche se il documentario non si fece mai (come poi spiegherò), con Cassola continuammo a vederci e collaborare insieme al gior- nale (autogestito) Basta con le armi!… c’erano anche padre Ernesto Balducci, Pino Masi (il cantore delle lotte del ’68) e Maurizio Moretti… per la nostra casa editrice, Traccedizioni, pubblicammo alcuni libelli inediti di Cassola sulla Democrazia diretta… ci sono stati tempi in cui bastava guardare un uomo in faccia per capire il valore dell’utopia.

Con Bianciardi ci siamo visti ancora un paio di volte… a Sant’Anna di Rapallo (nel novembre del ’68, mi sembra) e nel ’69 nei boschi di Sassetta… in quegli anni facevo cinegiornali sulle lotte degli studenti e degli operai nelle strade, nelle università, quando insomma sembrava che la rivoluzione sarebbe scoppiata il giorno dopo… avevo accantonato il documentario sulla Resistenza per l’arte di gioire della vita colta sul fatto. A Rapallo c’incontrammo in un bar a picco sul mare… c’era anche un uomo con i baffi e un cappellaccio, un editore piuttosto in- cazzato, disse poi Bianciardi… salutò Luciano in maniera amicale, mi strinse la mano e scomparve in fretta… Luciano borbottò, “è un rivoluzionario con i soldi”… (ho sempre pensato fosse Giangiacomo Feltrinelli, ma non ne sono certo). Il suo sguardo di traverso e il sorriso stretto, diffidente, però non l’ho mai dimenticato.

Si cominciò a parlare di cinema, Luciano diceva di amare il Neorealismo e vedevo che cono- sceva bene il “realismo magico” francese di Jean Renoir, Marcel Carné e quello della surreal- tà anarchica di Jean Vigo o Luis Buñuel… e s’appassionava per il cinema sovietico di Dziga Vertov, Sergej M. Ėjzenštejn o i western di John Ford… in modo particolare gli era piaciuto Furore… su tutti amava Roberto Rossellini di Roma città aperta e Paisà… mi chiese cosa fa- cevo… mi occupavo di cinegiornali politici, fotografie di strada, fogli eversivi, risposi… che avevo finito tutte le pellicole con le quali volevo fare il documentario sulla Resistenza, ma che in qualche modo (non proprio canonico) sarei riuscito a trovare altre pellicole… un sorriso a metà gli illuminò gli occhi… il vino si mescolava alle parole e la testa m’incominciava a gira- re… Luciano mi sembrava un po’ più solo di quando ci siamo incontrati a Milano… forse era- no le mie argomentazioni che saltavano da un’idea all’altra di fare cinema politico e fotografia di denuncia dell’oppressione poliziesca, forse il suo pensiero era ormai volato altrove… ci abbracciammo con la promessa che mi sarei fatto vivo.

Scoppiò l’autunno caldo del ’69… per quasi l’intero anno andai per le strade a filmare e foto- grafare le lotte operaie, gli scontri con la polizia, i tradimenti dei sindacati e del Partito Co- munista iniziati con la Primavera di Praga o forse con la rivolta di Budapest nel ‘56… però avevo sempre nella testa il mio documentario sulla Resistenza con Bianciardi e Cassola… ac- cadde che poco prima di Natale ci fu una riunione per così dire “clandestina” nella casa di legno nei boschi di Sassetta di un ex-partigiano anarchico (Pietro Bianconi)… in cambio di un libro-invettiva contro la CGIL pubblicato da Feltrinelli, aveva voluto del legname invece dei diritti d’autore e si era costruito quella casa nel bosco (mi aveva detto Pietro)… eravamo una quindicina, alcuni erano accolti con cautela, in quanto esuli, ricercati o espulsi dal territorio italiano per “attività sovversive” (non importa fare i nomi, qualcuno non c’è più, altri sanno bene di cosa parlo perché li ho più volte menzionati nei miei libri, e poi sono solo pagine di storia che i gazzettieri di regime non hanno mai compreso a fondo)… qualche tempo dopo la polizia italiana irrompe nella sua casa e arresta Soto Paillacar (anarchico cileno inviso alla dit- tatura del suo Paese) e Pietro… il “giusto” è sempre perseguitato.

Vennero anche a casa mia più volte e non trovarono nulla, non so cosa cercassero, non trova- rono nulla, solo libri anarchici, di filosofia, pochi romanzi, macchine fotografiche e una cine- presa… pellicole ancora vergini, niente fotografie imbarazzanti, qualche volantino dietro i quali c’erano appunti di viaggio… è sempre stato mio costume fermare pensieri, idee o pro- getti su qualsiasi cosa utile a ricordare… c’erano anche diverse tovaglie di carta gialla dell’o- steria del Toni… anch’esse coperte di parole, schizzi, soggetti di film, storie a fumetti, nomi scritti a margine… si portarono via quel mucchio di carta odorosa di vino e non mi è mai stato restituito niente… passarono poi alla casetta dei miei genitori (c’ero anche io che inzuppavo il pane nel ragù bollente di mia madre) e ci volle poco a rovistare le due stanzette di via Leo- nardo da Vinci… niente di niente… si soffermarono sulla fotografia di mia nonna partigiana con me in braccio, tutto fasciato, fatta al tempo che la mia famiglia era sfollata a Vignale (mia nonna aiutava i partigiani solo con qualche pacchetto di sigarette, un po’ di mangiare e il vino che riusciva trovare nelle campagne di Riotorto)… e chiesero perché aveva un nastro rosso attorno… c’era anche l’immagine di mio padre marinaio a Livorno in partenza per la guerra, che ha sempre detestato… “Le guerre le inventano i ricchi e le subiscono i poveri”, diceva. Mia madre spolverò il vetro delle fotografie — “Per non dimenticare” —, disse mia madre e offrì loro il caffè… che accettarono… ci conoscevamo tutti in città… mio padre s’accese la pipa, bevve un sorso di Vecchia Romagna e aggiunse col tono giusto: “Non bevo con certa gente”, e la chiuse lì.

Luciano Bianciardi, dicevamo… veniva da non so quale visita a Grosseto (credo dalla famiglia), un amico lo portò a pranzo con quella variegata bandiglia… il vino, il polpo allo zenzero, i maccheroni al ragù e le canzoni, le parole, i sogni, le utopie di rovesciamento di un mondo rovesciato invasero la nostra allegrezza… Addio Lugano bella era la canzone più mal- trattata… poi Pietro ci portò nel bosco, poco lontano da casa… mentre camminava con una mestola da muratore in una mano e una sigaretta Alfa nell’altra… borbottò: “Non mi sono mai arreso, io… mai… nemmeno quando i carabinieri ci levarono le armi”… arrivammo a un grande castagno, sul tronco c’era un fregio sbruciacchiato… cominciò a scavare… Luciano, io e gli altri due (che preferisco non menzionare per le cose dette sopra)… lo guardavamo un po’ divertiti… poco dopo tirò fuori dalla buca una balla avvolta in una tela cerata… l’aprì e uscirono un paio di vecchi fucili, una pistola e altre cosette della guerra partigiana. “Un colpo ben assestato nel posto giusto può cambiare il vento della storia”, disse con un sorriso sdentato Pietro… (evito di fare l’elencario dei nomi per un certo disgusto dei personaggi, tra que- sti c’era anche il “padre buono” dei comunisti, l’uomo di Mosca, lo chiamava Pietro… “quel- lo che ha tradito la Rivoluzione sociale di Spagna del ’36 e ha fatto sparare sugli anarchici a Barcellona dai suoi sgherri. Gli anarchici non archiviano però”, aggiunse Pietrino)… spesso dietro un mito o un santo si cela uno stupido preso troppo sul serio. Pensando a Bianciardi: Unico scopo della politica istituzionalizzata è la menzogna, il dire cose assolutamente false! Tutti coloro che sono incapaci di amare il diverso da sé si sono messi in politica e lì sono mor- ti. Pregiudizio e viltà sono esattamente la stessa cosa… tutte le strade della politica dei partiti conducono al covo di serpi dei governi, ed è per questo che i partiti vanno aboliti e denunciati al pubblico disprezzo (Simone Weil, diceva già negli anni ’50)… chiunque ha un talento, una virtù o una passione è contro ogni forma di tirannia, foss’anche quella mascherata della de- mocrazia rappresentativa.

Luciano si mise a parlare del suo libretto (scritto nel ’68) su un’immaginaria insurrezione nel paese di Nesci, che poi era Rapallo, Le cinque giornate: bisognerebbe occupare le banche (ti- tolo scartato dall’editore Rizzoli) e pubblicato in quell’anno come Aprire il fuoco… dopo una lunga e quasi comica discussione tra Pietro e Luciano sul Bel Paese che non è mai riuscito a fare una rivoluzione autentica… feci qualche fotografia a Pietro (anche a Luciano, ma si girò di spalle, venne sfocata)… si accese una sigaretta e si sistemò alla meglio il basco… tagliò cor- to: “Questa è la faccia di chi ha contribuito a liberare Sandro Pertini dalla galera di Regina Coeli a Roma, era stato condannato a morte per attività partigiane… gli misi addosso il mio cappotto e li fregammo tutti col fucile nelle mani”, aggiunse con sarcasmo (?!). Non ho mai saputo se ciò che aveva detto Pietro corrispondeva alla verità… a liberare Pertini erano stati i partigiani delle Brigate Matteotti (vicine al Partito Socialista di Unità Proletaria, dove erano confluiti militanti repubblicani, comunisti, anarchici e di Giustizia e Libertà)… tuttavia mi è sempre piaciuto pensare che quel cappotto nel quale era stato avvolto Pertini nella fuga dal carcere, fosse di Pietro.

Mentre Pietro cercava il serpente (un biacco) al quale dava sempre qualcosa da mangiare, non ricordo però come lo chiamava… Luciano, seduto nello scrittoio di legno (una sorta di ca- panno da caccia) di Pietro, gli tirava dietro una delle sue seducenti affermazioni (vado a me- moria): “La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione”. Pietro, col biacco nelle mani: “Non ci sono mai stati governi buoni! Il solo governo buono è quello che non go- verna affatto!, qualcuno ha detto”. L’eresia porta lontano e permette qualsiasi cosa… niente ha valore se non l’autobiografia che ne consegue. Ricordo bene però la vitalità di quella gior- nata passata nei boschi di Sassetta… ciascuno parlava del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato… le parole erano interrogativi, le risate, lo scherno prolungato contro i produttori di dolore… ero abbacinato da tanta bellezza discorsiva, quasi ammutolito di fronte a uomini che non rilasciavano certificati d’inesistenza… più ancora di come mi facevano comprendere l’odore buono del mondo.

Si era fatta sera… prima di abbracciarsi con Luciano gli dissi che il prossimo anno avrei fatto il mio documentario… e ci saremmo incontrati per dare inizio ai lavori… Luciano prese il viottolo con un paio di amici e scomparve nel bosco… è stata l’ultima volta che l’ho visto… restai a dormire nella casa di legno di Pietro, quella notte scrissi in sogno tutta la sceneggia- tura di I ragazzi che fecero la storia… quando Luciano scomparve (il 14 novembre 1971, ma lo venni a sapere solo qualche tempo dopo) ero a Torino, ferito a un occhio mentre filmavo gli scontri del movimento studentesco con la polizia (venni medicato e protetto nella villa in collina di una ragazza, figlia o nipote di un imprenditore o costruttore di gomme per auto- mobili e facemmo l’amore sotto un manifesto di Marx)… in quel momento non sono riuscito nemmeno a piangere, sapevo però che non avrei mai più fatto il mio documentario sui giovani della Resistenza. Ci sono uomini che hanno significato percorsi in utopia mai soppressi e hanno tracciato i migliori anni della nostra vita, uno di questi è stato Luciano Bianciardi. Dietro ogni incontro in utopia c’e il meraviglioso, ma è sempre l’uomo in rivolta che crea un’epoca.

dal Taccuino di un fotografo di strada
Fez (Marocco) 2013 — Piombino 2018

1 Questi ricordi di Luciano Bianciardi sono ripresi un po’ a strappi, da anni un po’ turbolenti ma fecondi di gioie e utopie quotidiane… di questi incontri con Luciano Bianciardi né ho parlato qualche volta a margine dei miei lavori (e non so se con precisa ricostruzione storica)… senza gli appunti di un quadernetto nero del tempo, sepolto da qualche parte del mio archivio, ho dovuto ripensare a certi particolari (anche personali) che avevo dimenticato, altre volte ho fatto fatica a ricostruire i filamenti culturali di quei giorni… il tema dei discorsi era comunque quello esposto qui. Ne avevo anche conversato, più volte, con Tiziano Arrigoni, per un libro su Luciano
Bianciardi che stava scrivendo… credo… riportano (dopo la scomparsa di Bianciardi) anche alla frequentazione
che ho avuto con Carlo Cassola, padre Ernesto Balducci, Maurizio Moretti, nel corso della nostra collaborazione
alla rivista Basta con le armi… quando la leggenda supera la storia, si scrive la leggenda.
1

One Comment on “Mi ricordo sì, mi ricordo di Luciano Bianciardi”

  1. Pingback: 1domestic

Comments are closed.

Manifesto per una fotografia dei diritti umani resistenza sociale, disobbedienza civile e poetica dell’immagine

Manifesto diritti umani